Tra le più note residenze nobiliari di delizia edificate nei secoli scorsi nella fascia settentrionale di Milano, il complesso di Villa Visconti Borromeo Litta di Lainate è divenuto celebre anche per la straordinaria varietà di mosaici, statue, affreschi, fontane e giochi d’acqua che ornano gli interni del palazzo e il suo celebre Ninfeo. Committente di questa mirabile struttura fu il conte Pirro I Visconti Borromeo, che intorno al 1585 radunò intorno a sé alcuni dei più celebri artisti, scultori e pittori dell’epoca, che collaborarono insieme alla realizzazione della ricca decorazione parietale di villa e giardino. Tra i numerosi artisti attivi nel complesso degno di particolare nota è Camillo Procaccini, impegnato nella più antica campagna decorativa della villa, prima nei soffitti del Ninfeo (1587-1579) e poi all’interno delle sale dell’ala cinquecentesca della palazzo (1602-1603), insieme ai meno noti Agostino Lodola e Giovan Battista Maestri, detto il Volpino.
Appartenente ad una delle più celebri famiglie di pittori del nord Italia, Camillo fu il figlio dell’artista Ercole Procaccini il Vecchio e fratello maggiore degli altrettanto noti Giulio Cesare e Carlo Antonio Procaccini. Poco si sa dell’attività emiliana sia del padre Ercole che di Camillo, svoltasi probabilmente tra Bologna, Parma e Reggio e legata a committenze sia ecclesiastiche che civili. Biograficamente sono ancora avvolte dal mistero le ragioni che causarono il trasferimento dell’intera famiglia a Milano intorno al 1587, a seguito della quale il “mercato” artistico bolognese venne progressivamente occupato dall’affermazione di un’altra famiglia di pittori: i Carracci.
Ercole Procaccini godeva sicuramente nel territorio natio di una solida posizione sociale che trasmise ai figli, tuttavia Camillo mostrò fin dalla giovane età una certa distanza dai modelli del padre, per lui ancora troppo legati ad un certa estetica michelangiolesca “di maniera”.
Il trasferimento nella capitale lombarda proiettò il giovane artista al centro di uno degli ambienti più aggiornati dell’Italia settentrionale fortemente influenzata dalla cultura d’oltralpe, in cui si affermò immediatamente quale assoluto protagonista, proprio in ragione dell’opera svolta presso le stanze di Villa Visconti Borromeo Litta.
Qui Camillo si fece contagiare dal clima di grande sperimentazione promosso da Pirro e dal suo consulente artistico, lo storiografo e artista Giovanni Paolo Lomazzo, occupandosi della progettazione dell’intero apparato decorativo delle grotte del Ninfeo, nel quale realizzò un artificioso habitat di pietre, stalattiti e conchiglie all’interno del quale doveva essere raccolta l’eclettica collezione di opere d’arte, fossili, minerali, monete, reliquie, strumenti meccanici e reperti archeologici di proprietà del conte. Tale ambiente mostra chiaramente la sua adesione alla poetica del grande artista parmense Correggio, di cui Pirro possedeva alcuni capolavori: le fantasie arabescate sui soffitti raffigurano infatti creature mitologiche (fauni, satiri e ninfe) chiaramente ispirate alle figure aeree dipinte da Correggio nelle cupole delle chiese parmensi, qui fittamente intrecciate ad essenze arboree rampicanti e alternate ad un fantasioso bestiario di animali esotici che tradisce una formazione a stretto contatto con il fecondo ambiente di studi raccoltosi intorno al naturalista, botanico ed entomologo bolognese Ulisse Aldrovandi. All’interno del Ninfeo Camillo si misurò inoltre con una tecnica del tutto nuova, la pittura su ciottoli di fiume: le tessere di pietra fluviale bianche e nere furono applicate sull’intonaco ancora fresco secondo un disegno prestabilito e poi furono dipinte come se si trattasse di una normale pittura murale, ottenendo una superficie di grande spettacolarità ed estrema preziosità.
L’eco della sua formazione emiliana rimane evidente anche nei dinamici scorci delle due figure di Mercurio e della Fortezza, mirabilmente ritratti dal sottinsù, che dominano i soffitti delle sale al pianoterra dell’ala cinquecentesca della villa, caratterizzate da un’estesa presenza di motivi a grottesche, ovvero da una fittissima decorazione a racemi vegetali e floreali arricchita dalla presenza di teste di putti, uccelli, animali fantastici e mostruosi. Queste bizzarrie ornamentali, alternate ad ornati e motivi all’antica, corrispondevano al gusto del committente del complesso nonché a quello dell’intero ambiente artistico lombardo, che a partire dall’inizio del XVI secolo fece largo uso di questo nuovo repertorio figurativo derivato dalle coeve scoperte archeologiche romane che all’epoca apparivano come grotte sotterranee (da cui il termine “grottesche”). A completare le già ricchissime affrescature parietali della villa si aggiunsero inoltre una serie di paesaggi bucolici di ispirazione fiamminga e scene di genere (soprattutto di soggetto mitologico o inerenti il tema della caccia) che la critica ha assegnato al fratello minore di Camillo, Carlo Antonio Procaccini, apprezzato pittore di paesaggi e di nature morte, che probabilmente affiancò il fratello nell’impresa di Lainate.
L’eredità figurativa delle opere lainatesi verrà poi da Camillo passata anche all’altro fratello, Giulio Cesare, e ai fratelli Nuvolone, contribuendo così ad una vera e propria rivoluzione della tradizione figurativa lombarda, che prima dell’arrivo dei Procaccini a Milano era ancora fortemente improntata sulla lezione geometrica offerta da Bramantino.
L’indole sperimentale rimase infatti anche nella successiva produzione di Camillo che, sebbene più legata ad opere di stampo ecclesiastico e dunque sottoposta ai pesanti vincoli imposti dall’epoca controriformista, si dimostrò ancora pervasa da un linguaggio efficace e sciolto, dall’utilizzo di toni pastello e campiture soffuse, nonché da una grande sensibilità coloristica debitrice del Correggio e vicina ad alcune opere di Federico Barocci. Alla committenza di Lainate seguì infatti una rapida e incontrastata affermazione di Camillo nell’ambito della pittura religiosa della diocesi ambrosiana, che lo porterà a realizzare opere di grande rilievo quali le ante degli organi del Duomo di Milano e numerose opere sacre per le chiese milanesi, tra cui la basilica di Sant’Ambrogio e le chiese di San Fedele, San Francesco Grande e Santa Maria del Carmine. Fu lo Stesso Pirro I Visconti Borromeo, in qualità di membro influente del capitolo del Duomo, a favorire gli ingaggi del pittore ed in generale il rinnovamento stilistico delle opere di soggetto sacro negli anni successivi la morte di Carlo Borromeo.
Chiamato a confrontarsi con queste nuove sfide, Camillo seppe farsi promotore di una nuova maniera che alle freddezze cromatiche di Giovanni Ambrogio Figino e all’eccesso di realismo dei fratelli Campi, contrapponeva invece soluzioni compositive di immediata comprensione, nel rispetto delle regole di “decoro” e “verosimiglianza” imposte ai soggetti sacri, ma senza per questo dimenticare la passione per le figure mostruose e bizzarre e per i paesaggi di stampo fiammingo.
Per molti anni l’artista rimarrà attivo soddisfacendo numerose richieste di pale d’altare provenienti da un vasto territorio compreso tra Venezia, la nativa Emilia Romagna, passando per la diocesi ambrosiana fino alle estreme valli a nord del Ticino, cui affiancò anche una notevole produzione di incisioni ad acquaforte e disegni destinati al collezionismo privato, raffiguranti per lo più teste caricate, nudi accademici ma anche articolate composizioni sia sacre che profane. Solo con l’aprirsi del nuovo secolo, caratterizzato dall’imponente realizzazione del primo ciclo di quadroni dedicati alla figura di San Carlo Borromeo, sarà il Cerano ad assumere il ruolo di protagonista della scena pittorica milanese, insieme a Giulio Cesare Procaccini e a Morazzone.
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