Stanzino detto ‘della covetta’

29CE stanzino detto della covetta (5)

 

Caratterizzata da un impianto planimetrico irregolare a base trapezoidale, questa stanza presenta pareti completamente rivestite da affreschi raffiguranti “boscarecce”, che riprendono iconografie e tematiche presenti nelle stanze adiacenti.

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Qui all’elemento naturalistico l’artista conferisce assoluta predominanza, secondo il gusto tipicamente barocco del XVII secolo delle ville di delizia, in cui il soggetto paesaggistico abbandona definitivamente le istanze sacre e storicistiche per caricarsi di significati allegorici nuovi e autonomi. Il moderno stile si impone soprattutto a Roma a partire dalla metà del Seicento, dove gli artisti cominciano a proporre una natura che sfugge sia al rigore classico che all’analisi minuziosa e realistica dei fiamminghi, apparendo realizzata “di getto” e inventata con velocità e facilità. Non è dunque un caso che Bartolomeo III Arese scelga come autore di questi dipinti il pittore milanese Giovanni Ghisolfi (1623-1683), formatosi proprio nella capitale all’interno della cerchia di Salvator Rosa, inventore di un tipo di paesaggio di grande originalità e dalla forte carica espressionistica, precorritore della sensibilità romantica.
Secondo un inventario della fine del XVII secolo, la “Stanza detta ‘della Covetta’” (civetta) venne utilizzata sia come camera da letto che come piccola sala della musica, senza specificare la sua funzione originaria, che probabilmente doveva essere di “Wunderkammer” naturalistica. Ciò sembrerebbe confermato dalla presenza, in quest’ala del piano nobile, di una singolare successione di ambienti dedicati alle scienze della natura e all’astronomia, che fungevano da introduzione e accesso alla torre-osservatorio. Questa funzione spiegherebbe anche l’insistita raffigurazione di specie animali, in particolar modo volatili, dai multiformi colori e dai molteplici significati simbolico-allegorici. Tra questi, oltre la civetta che dà il nome alla stanza, anche l’airone serpentario, reinterpretato da parte delle critica come una variante dello stemma borromaico; i conigli, simbolo di mitezza e fedeltà; e la scimmia, spesso associata alla malvagità e al peccato.
Nell’estremità inferiore della parete orientale una caduta di intonaco ha messo in luce un brano di pittura completamente avulso dal contesto che raffigura una giovane damina seduta con un levriero bianco, sulla cui interpretazione la critica appare divisa. Alcuni hanno infatti proposto che si tratti di un esplicito riferimento alla committenza del padre di Bartolomeo III Arese, Giulio I, e che si tratti di un’opera assolutamente precedente alle boscarecce, mentre altri hanno proposto un intervento pittorico successivo all’opera del Ghisolfi, realizzato volutamente in stile arcaicizzante, mostrando la giovane con un’acconciatura tipicamente seicentesca.