La “Sala delle Rovine” deve il suo nome alla ricchissima decorazione parietale ad affresco, raffigurante monumentali rovine sulle quali la vegetazione cresce vistosamente. I paesaggi sono separati da una puntuale e precisa riquadratura architettonica affrescata, costituita da un ampio architrave con festoni sorretto da un sistema di pilastri con mascheroni, in cui la luce corrisponde a quella reale proveniente da porte e finestre.
Continua
All’interno delle specchiature si scorgono rovine romane di assoluta fantasia o ispirate alla realtà liberamente reinterpretata dal pittore. Sulla parete settentrionale, ad esempio, sopra il camino, è raffigurato il Colosseo affiancato dal Colosso eponimo di Nerone-Elio, con accanto un personaggio che lo sta disegnando, probabile abbozzo dell’autoritratto dell’artista.
La critica ha assegnato tutte le raffigurazioni di “boscarecce” dipinte all’interno del palazzo al pittore milanese Giovanni Ghisolfi (1623-1683), formatosi a Roma presso la cerchia di Salvator Rosa e specializzatosi proprio in raffigurazioni ruinistiche. L’esecuzione delle parti più seriali dovrebbe invece appartenere ai Mariani, una delle più grandi botteghe quadraturistiche attive a Milano e in Lombardia in quegli anni.
Sopra il camino, ricostruito su preesistenze, compare un imponente “stemma di alleanza” sorretto da amorini. Esso contiene, oltre al motto degli Arese, gli emblemi riuniti delle famiglie Arese, Omodei e Visconti di Brebbia, a testimonianza e garanzia della saldezza dei rapporti tra i differenti rami familiari.
Nel complesso la sala differisce dalle adiacenti, in cui il primato della natura viene quasi ostentato, per la predominanza delle architetture, prodotto dell’ingegno umano e dunque della cultura. Una vittoria, questa, apparentemente di brevissima durata rispetto all’eternità della natura, che qui viene grandemente proposta anche nelle scene paesaggistiche, conferendo alle costruzioni un aspetto quasi effimero. Le architetture in rovina ebbero durante il Barocco una straordinaria diffusione proprio per la particolare suggestione offerta dalle loro forme ‘corrose’ e ‘invase’ dalla natura, che esemplificavano perfettamente il concetto di tempo che scorre senza tregua, modificando inesorabilmente anche le migliori e più solide costruzioni umane. Poter presentare all’interno delle residenze nobiliari e delle ville di delizia una serie di vedute ruinistiche rappresentava, inoltre, la possibilità di mostrare agli ospiti la propria cultura ed erudizione storico-architettonica, seppure sublimate da sfondi particolarmente suggestivi e, in alcuni casi, con evidenti modifiche rispetto alla realtà finalizzate all’idea di un mondo perduto.
In questa sala, nota negli inventari di palazzo anche come “Stanza grande del letto verde”, non manca la possibilità di rintracciare personaggi plebei accanto a nobili che passeggiano tra le rovine. I dipinti suggeriscono, infatti, la presenza di un variegato microcosmo sociale che, talvolta, sfocia nel grottesco e nell’irriverente, poiché nell’infinita varietà delle scene proposte, l’artista nasconde tutti i vizi e gli atteggiamenti umani. Accanto a pitocchi che chiedono l’elemosina e a nobili più interessati alle dame che a ciò che accade accanto a loro, l’artista ritrae anche uomini parzialmente ignudi nell’atto di espletare i propri bisogni fisiologico-corporali, quasi ammiccando all’osservatore. La stanza dipinta costituisce, dunque, una sequenza quasi infinita di singole istantanee registrate dall’artista, che qui ha inserito i comportamenti degli esseri umani in un unico contesto unitario, offrendo ai padroni di casa e agli ospiti il divertissement e la possibilità di scrutare e riflettere sulla multiforme scenografia della commedia umana.
La critica ha assegnato tutte le raffigurazioni di “boscarecce” dipinte all’interno del palazzo al pittore milanese Giovanni Ghisolfi (1623-1683), formatosi a Roma presso la cerchia di Salvator Rosa e specializzatosi proprio in raffigurazioni ruinistiche. L’esecuzione delle parti più seriali dovrebbe invece appartenere ai Mariani, una delle più grandi botteghe quadraturistiche attive a Milano e in Lombardia in quegli anni.
Sopra il camino, ricostruito su preesistenze, compare un imponente “stemma di alleanza” sorretto da amorini. Esso contiene, oltre al motto degli Arese, gli emblemi riuniti delle famiglie Arese, Omodei e Visconti di Brebbia, a testimonianza e garanzia della saldezza dei rapporti tra i differenti rami familiari.
Nel complesso la sala differisce dalle adiacenti, in cui il primato della natura viene quasi ostentato, per la predominanza delle architetture, prodotto dell’ingegno umano e dunque della cultura. Una vittoria, questa, apparentemente di brevissima durata rispetto all’eternità della natura, che qui viene grandemente proposta anche nelle scene paesaggistiche, conferendo alle costruzioni un aspetto quasi effimero. Le architetture in rovina ebbero durante il Barocco una straordinaria diffusione proprio per la particolare suggestione offerta dalle loro forme ‘corrose’ e ‘invase’ dalla natura, che esemplificavano perfettamente il concetto di tempo che scorre senza tregua, modificando inesorabilmente anche le migliori e più solide costruzioni umane. Poter presentare all’interno delle residenze nobiliari e delle ville di delizia una serie di vedute ruinistiche rappresentava, inoltre, la possibilità di mostrare agli ospiti la propria cultura ed erudizione storico-architettonica, seppure sublimate da sfondi particolarmente suggestivi e, in alcuni casi, con evidenti modifiche rispetto alla realtà finalizzate all’idea di un mondo perduto.
In questa sala, nota negli inventari di palazzo anche come “Stanza grande del letto verde”, non manca la possibilità di rintracciare personaggi plebei accanto a nobili che passeggiano tra le rovine. I dipinti suggeriscono, infatti, la presenza di un variegato microcosmo sociale che, talvolta, sfocia nel grottesco e nell’irriverente, poiché nell’infinita varietà delle scene proposte, l’artista nasconde tutti i vizi e gli atteggiamenti umani. Accanto a pitocchi che chiedono l’elemosina e a nobili più interessati alle dame che a ciò che accade accanto a loro, l’artista ritrae anche uomini parzialmente ignudi nell’atto di espletare i propri bisogni fisiologico-corporali, quasi ammiccando all’osservatore. La stanza dipinta costituisce, dunque, una sequenza quasi infinita di singole istantanee registrate dall’artista, che qui ha inserito i comportamenti degli esseri umani in un unico contesto unitario, offrendo ai padroni di casa e agli ospiti il divertissement e la possibilità di scrutare e riflettere sulla multiforme scenografia della commedia umana.