Sala di Vulcano o Sala del gioco del trucco o Sala dei Cardinali

9CE Sala del gioco del trucco o Sala di Vulcano o Sala dei cardinali (3)

 

La stanza è denominata “Sala del gioco del trucco” per via della presenza in essa, alla metà del XVIII secolo, di un particolare gioco denominato “trucco”, molto simile al biliardo e la cui presenza era molto diffusa nelle residenze nobiliari italiane. Precedentemente la stanza era chiamata “Sala dei cardinali”, poiché le lunette della volta erano originariamente decorate con una serie di tele ottagonali raffiguranti ritratti di prelati, oggi conservate nel Palazzo Borromeo dell’Isola Madre e riproposte in copia sulle pareti dall’associazione “Vivere il Palazzo e il Giardino Arese Borromeo”. Le pitture interne alle lunette che si ammirano oggi rappresentano paesaggi in rovina, realizzati insieme alla decorazione settecentesca della sala con motivi geometrici, inserti floreali ed emblemi borromaici, intorno al 1743, in occasione delle nozze di Renato III Arese Borromeo con Marianna Erba Odescalchi.

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La denominazione “Sala di Vulcano”, invece, deriva dall’affresco eseguito probabilmente da Federico Bianchi (1635-1719) al centro della volta, raffigurante la “Caduta di Vulcano”. L’opera rappresenta il dio Vulcano che viene fatto precipitare dal cielo dal dio Marte, in piedi sulla destra, vestito con le insegne di guerra, con l’armatura, l’elmo, lo scudo e la lancia. Sul lato opposto della scena la legittima consorte Venere, accompagnata dal piccolo Eros coronato di ulivo, sembra intercedere per lui presso Giove, raffigurato assiso sulla nuvola più alta, a cavallo di un’aquila, con in testa la corona e in mano le folgori legate. La mitologia greca associa più volte il tema della caduta dall’Olimpo al dio del fuoco. Appena nato, infatti, egli fu scagliato dal cielo dalla madre Era, che si vergognava per la sua bruttezza, e si salvò solo perché precipitò in mare, dove fu trovato e accudito dalle ninfe Teti ed Eurimone. Dopo molti anni egli perdonò la madre per questo gesto e anzi, per aver osato difenderla durante una contesa con Giove, egli fu nuovamente scaraventato a terra da suo padre. Dopo un giorno intero di caduta, Vulcano atterrò sull’isola di Lenno, dove fu curato dagli abitanti del luogo che lo accolsero benevolmente.
Nel dipinto cesanese Vulcano-Efesto sembra cadere per mano di Marte, amante della moglie Venere, che, tuttavia, sembra solamente eseguire la volontà di Giove. L’episodio può dunque riferirsi alla scoperta da parte di Vulcano del tradimento della consorte, da lui intrappolata insieme all’amante nel talamo nuziale con una rete invisibile, chiamando poi tutti gli dei dell’Olimpo a testimoniare il suo disonore. Gli dei schernirono, allora, Vulcano per l’accaduto e Giove accusò il dio del fuoco di essere uno sciocco per aver reso pubblico il fallimento del suo matrimonio.
Le fattezze del padre di tutti gli dei sono state lette dalla critica come quelle del re di Spagna Filippo IV, con il preciso intento di sovrapporre, come già in altre sale del palazzo, la mitologia classica con la storia politica contemporanea, suggerendo un uso moderato della forza e del potere. Proprio a questo tema della punizione frenata dalla compassione, la critica ha associato anche un’altra possibile interpretazione del dipinto legata ad alcuni eventi milanesi accaduti tra il 1659 e il 1661, che coinvolsero il medico e alchimista Francesco Giuseppe Borri. Più volte in fuga e processato per eresia, egli fu protetto della famiglia Arese, che si interessò affinché il suo processo presso il Sant’Uffizio romano non avesse drammatiche conseguenze, da cui il collegamento con il tema trattato nel dipinto della punizione dovuta agli accessi, mitigata però nell’esercizio della giustizia. L’Arese sarebbe in questo caso nascosto sotto le sembianze della Venere benevola, che intercede presso Giove. Secondo questa lettura iconografica, l’identificazione di Vulcano con Borri simboleggerebbe l’importanza del progresso scientifico poiché, come la caduta di Vulcano sulla terra è stata fonte di civilizzazione per gli uomini che impararono a lavorare i metalli, così la libertà intellettuale del Borri ha permesso una diffusione laica del suo sapere in Europa. Non senza ragione, tuttavia, questa ardita ipotesi di lettura iconografica non è universalmente condivisa e, per essere accettata pienamente, necessita ancora di approfondimenti storiografici e documentali.