L’opera in terracotta è collocata all’interno di una grande nicchia in travertino, ricavata in una finta edicola in calcare grigio e posta in fondo al giardino del Ninfeo, quale punto terminale dell’asse sud-nord che orienta l’intero complesso della villa. Essa rappresenta un giovane che solleva sopra la sua testa una fanciulla nuda, la quale cerca di divincolarsi buttando all’indietro il capo e levando un braccio in aria, mentre con l’altro tenta di allentare la stretta del suo rapitore. Accovacciato a terra, sotto le gambe dell’uomo, un’altra figura maschile cerca di trattenere la ragazza stringendole una caviglia.
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Il gruppo scultore raffigura il “Ratto delle Sabine”, una fra le leggende più antiche legate alla storia di Roma, secondo la quale Romolo si rivolse alle popolazioni vicino a Roma per stringere alleanze e ottenere in matrimonio le donne con cui popolare la nuova città. Ottenendo un rifiuto, egli decise allora di organizzare un grande spettacolo per attirare in città gli abitanti del Lazio, durante il quale catturò le donne e scacciò gli uomini, che abbandonarono Roma giurando vendetta. La guerra che ne derivò, in particolare con la popolazione dei Sabini, venne poi fermata dalle stesse donne rapite, le quali supplicarono gli uomini di interrompere il sanguinoso scontro e mettere le basi per la pace, varando l’unione tra i due popoli con comunanza di potere e cittadinanza. L’identificazione dei personaggi qui rappresentati con questo episodio spiegherebbe la presenza di un uomo ai piedi del rapitore, apparentemente più anziano, che potrebbe identificarsi con il padre della fanciulla. Secondo Plutarco infatti, Romolo e i suoi rapirono soltanto donne non maritate, mentre lo storico Tito Livio sostiene che non venne usata su di loro alcuna violenza e che Romolo offrì alle fanciulle pieni diritti civili e di proprietà nella neonata città.
La scultura appare fortemente in debito, a livello di impianto compositivo, della celebre ed omonima opera del Giambologna collocata sotto la Loggia dei Lanzi in Piazza della Signoria a Firenze, databile 1583, tuttavia il carattere espressivo e il naturalismo accentuato delle figure richiamano anche alla tradizione scultorea lombarda. La critica ha proposto in questo senso due diverse ipotesi attributive. Una prima si muove a favore del poco noto scultore pavese Ruggero Bascapè (m. 1600), allievo di quel Francesco Brambilla che viene considerato il “regista” di tutte le invenzioni scultoree presenti in Villa. Una seconda, sposta invece l’attenzione sullo scultore francese Pierre Francheville (1553-1616), che apprese a Firenze lo stile manierista proprio presso la bottega del maestro fiammingo Giambologna.
Indipendentemente dalla provenienza dell’autore, è comunque assai probabile che Pirro I Visconti Borromeo si fosse assicurato la presenza nella sua raccolta artistica anche di qualche scultura di piccolo formato, in marmo o bronzo patinato, che testimoniasse l’importanza dei modelli del Giambologna e che dunque l’autore del “Ratto delle Sabine” abbia avuto direttamente a che fare con le opere dello scultore.