Considerato uno degli ambienti artistici più significativi della provincia milanese, il complesso architettonico di Villa Arconati a Castellazzo di Bollate fu sede di una delle più importanti collezioni artistiche della Lombardia a cavallo tra XVII e XVIII secolo. L’iniziatore della raccolta fu Galeazzo Arconati, il quale fece edificare all’interno della villa un apposito museo per ospitare le opere da lui ricercate negli anni e nei numerosi viaggi compiuti preminentemente nel territorio romano. Spetta invece al suo pronipote, Giuseppe Antonio Arconati, la committenza di uno dei più prestigiosi e ricchi dal punto di vista decorativo, ambienti del palazzo: il cosiddetto “Salone dei Galliari”.
Tale vasto salone è interamente affrescato con finte architetture e con la rappresentazione, sulla volta, degli episodi mitologici della “Caduta di Fetonte”, dell’“Allegoria del Tempo” e del “Carro solare”. La partitura architettonica è costituita nella parte bassa da zoccoli e nicchie che si sviluppano in altezza in balaustre sormontate da edicole con colonne tortili, sopra le quali si collocano arconi con timpani e cupole in forte scorcio.
Le figure si organizzano in gruppi autonomi sui due lati della stanza, ma scendono in mezzo alle architetture dipinte poggiandosi su cornicioni e timpani o sbucando tra le nuvole, in una serrata unione tra personaggi e fondale che tiene conto anche della presenza di reali porte e finestre, qui incorniciati da finti rilievi a monocromo, figure e statue bronzo, ghirlande e vasi di fiori.
L’opera fu realizzata intorno al 1750, a conclusione dei lavori di ampliamento della villa, dai tre fratelli piemontesi Bernardino, Fabrizio e Giovanni Antonio Galliari, largamente noti come scenografi per tutto il XVIII secolo e sino al XIX secolo inoltrato. Formatisi vicino all’attività dei Bibiena e di Juvarra, da cui appresero l’arte della prospettiva e il gusto per l’illusionismo, nonché un certo amore per le atmosfere di Maniera, nella loro produzione vi fu un’interferenza continua tra pittura e scenografia, che costituì, di fatto, il dato più singolare e unico della loro carriera, permettendogli di lavorare sia come frescanti che in committenze più spiccatamente legate al mondo effimero della scenografia teatrale.
La tradizione artistica familiare risale al padre Giovanni, dopo la cui morte si presume che Bernardino, appena quindicenne, abbia lasciato il Piemonte per Milano, dove compì il suo apprendistato, subito seguito dal fratello tredicenne Fabrizio e successivamente da Giovanni Antonio, entrambi menzionati alla scuola dei quadraturisti milanesi. Dato che all’epoca il mestiere di scenografo non era in Italia considerato una professione nobile e apprezzata, è ipotizzabile che la fama raggiunta dai tre sia imputabile proprio ai loro lavori come pittori, grazie alle numerose commissioni ottenute nei primi decenni del Settecento tra Milano e Treviglio, dove stabilirono la loro residenza. Abituati a lavorare alle scenografie teatrali i Galliari tendevano anche negli affreschi a ricercare straordinari effetti scenografici, facendo ampio uso di finti stucchi, spessi cornicioni, modanature arrotondate, riccioli e volute, che per altro corrispondevano al nuovo gusto tipicamente barocchetto della Milano dell’epoca, fino ad allora dominata da un gusto quadraturistico di stampo bolognese, ovvero caratterizzato da un’impostazione prospettica solida e precisa ma carente negli effetti di scorcio e di fusione illusionistica tra figure e sfondo.
Il salone di Villa Arconati costituisce una delle loro opere più riuscite, in cui ben presente è il contatto con le opere di Tiepolo ed in special modo con gli affreschi di Palazzo Archinto a Milano: dall’artista veneziano essi trassero vari spunti quali l’ardito scorcio del carro solare, il personaggio-tipo del vecchio barbuto, l’uso di una vegetazione lacustre caratterizzata da foglie lunghe e sottili, così come la modellazione di panneggi rotondeggianti, che sembrano girare su se stessi.
Le figure femminili dalle posizioni arcuate, con gambe affusolate e seni piccoli e alti, rivelano invece un debito nei confronti del barocco nella sua forma più internazionale, filtrato in Italia, e in particolare nella zona piemontese, dalla cultura figurativa francese. Del tutto originale è infine l’uso del colore, il cui tono dominante è il giallo, declinato in tutte le sue possibili varianti dall’oro allo zafferano al limone, che qui interessa anche gli incarnati dei personaggi, spezzando la tradizione tipicamente settecentesca delle carni rosate e in aperto contrasto con i colori puri delle vesti (verdi, bianchi pastosi, viola di differenti gradazioni).
Molto difficile definire, in tale ambiente come in quasi tutte le loro opere di pittura parietale, le singole mani dei tre fratelli: il loro lavoro si svolse sempre insieme e pare che i tre intendessero volontariamente tramandarsi come famiglia piuttosto che come singole personalità autonome. In questo senso, l’uso tradizionale nelle committenze dell’epoca di affidare le riquadrature architettoniche ad un “prospettico”, le figure ad uno “specialista” e i paesaggi ad un “esperto di pittura di genere”, non fu necessario, essendo i Galliari in grado di fondere tali differenti specificità l’una nell’altra, scambiandosi le parti e rendendo dunque quasi impossibile un’attribuzione certa dei singoli elementi pittorici.
L’impossibilità di attribuire singole parti pittori ai singoli fratelli è dunque una caratteristica peculiare della bottega dei Galliari che emersero per la loro arte anche nelle sale affrescate di altre nobili dimore lombarde caratterizzate da un’elaborata concezione iconografica, tra le quali emerge per importanza Palazzo Visconti a Brignano Gera d’Adda, nei quali i fratelli Galliari dipinsero l’”Allegoria del Tempo” e “Giunone sopra un carro trainato da due pavoni”. Qui i Galliari poterono vedere opere di grande impianto scenografico dal grande pathos emotivo, quale lo scalone dominato, sul soffitto, dalla raffigurazione dell’apoteosi del dominio visconteo tra il tripudio degli dei in festa: qui Giove è ritratto con l’aquila ai suoi piedi nell’atto di porgere la corona ai rappresentanti della casata viscontea, rappresentata da un bambino con la serpe che gli si attorciglia alla gamba destra.
Bernardino, il più noto tra i tre fratelli e sicuramente il principale responsabile della bottega, appare il più versatile e il più “pittore”, cui forse spettavano le invenzioni relative la composizione generale e le figure. Su Fabrizio, il cui tratto si mostra più sottile e nervoso, doveva invece ricadere la responsabilità di inquadrare e collegare le varie parti del complesso, grazie alla sua straordinaria abilità di quadraturista.
Poco conosciuta è infine la parte effettuata negli affreschi da Giovanni Antonio, la cui personalità appare sicuramente di minor rilievo rispetto ai fratelli, ma che sicuramente doveva essere abilissimo nel rendere pittoricamente le idee degli altri due senza far percepire alcuna discrepanza tra i differenti tratti.
Dal 1755 in avanti Torino divenne per i Galliari nuovamente il centro dell’attività lavorativa e personale, con il trasferimento di Bernardino mentre i due fratelli mantennero la residenza a Treviglio. Il ritorno nella città natale corrispose però ad un cambio di gusto e ad una maggiore durezza di tocco e di stile, più vicina al gusto austriaco e tedesco. Anche i successivi lavori nel territorio del Garda mostrano infatti un avvicinamento al rigore neoclassico: le decorazioni sono realizzate con maggiore parsimonia di colori ed effetti, limitando l’illusionismo alle sole coperture e la scelta delle tematiche a soggetti più discreti, che corrispondevano alle nuove teorie illuministe e ad un gusto per il ritorno alla classicità che si stava ormai definendo nel capoluogo piemontese.
Per saperne di più dell’opera dei fratelli Galliari in Villa Arconati a Castellazzo di Bollate: